Clemente di San Luca a TN "Risultati hanno nascosto limiti del Napoli, stampa compiacente"
Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Campania Luigi Vanvitelli, commenta così il momento di casa Napoli:
"Per la prima volta in questa stagione, dopo molto tempo, sono tornato ad essere invitato in una trasmissione televisiva. Complice la doppia sconfitta con la Lazio in tre giorni. Evidentemente, non potendosi più ‘coprire’ i limiti del gioco del Napoli, pressoché privo di schemi offensivi. Limiti che fin qui non si potevano denunciare, un po’ perché nascosti dai risultati, e molto perché celati da commenti della stampa (in primis locale) compiacenti e miopi. Se tu li evidenziavi – come non ho mai rinunciato a fare (ciò suggerendo di evitare di invitarmi in TV) –, meritavi la qualifica di ‘ciucciuvettola’, di gatto nero, di porta-sfiga. Uno che, disturbando il manovratore, danneggiava la squadra. E non uno che, perduto amante dell’azzurro, per il bene di questo, stava semplicemente provando a segnalare i limiti dell’asfittico gioco d’attacco fin qui proposto dall’allenatore.
Invano sto provando a chiarire che, benché non fossi affatto entusiasta del suo avvento (ben prima che si materializzasse, richiesto di parere da media locali, avevo esplicitamente dichiarato di preferire Italiano e – tu guarda – Baroni), una volta divenuto allenatore del Napoli, è anche il mio allenatore. Da allora devo convivere con le fortissime contraddizioni interiori che derivano dalla sua juventinità convintamente confermata.
Nel corso della trasmissione, ho avuto la riprova che tutto lo sforzo che sto facendo dal 2018, per spiegare che le regole del calcio sono norme giuridiche e come tali vanno trattate e fatte rispettare, è ancora molto lontano dall’ottenere un significativo risultato. Avendo rivendicato di essere forse, in quel contesto, il solo ad aver titolo per esprimersi con piena cognizione di causa sulle regole del gioco (visto che non è peregrino riconoscere la mia competenza scientifica, in quanto obiettivamente docente universitario di diritto), mi sono sentito rivolgere, in modo pure un po’ provocatorio, il quesito se io fossi esperto di ‘legge’ o di ‘regole’. Come se fossero cose diverse, come se le leggi non siano costituite da regole, come se le regole non siano contenute in leggi.
Le regole del calcio sono norme giuridiche. Fintanto che si continuerà a considerarle come mere ‘indicazioni’ non vincolanti, nelle mani della opinabile interpretazione di ex giocatori, ex arbitri e giornalisti pressoché privi di basi giuridiche, l’esito sarà inesorabilmente l’assoluta disparità nella loro applicazione, e perciò la iniquità, generata dall’arbìtrio incontrollato e incontrollabile delle decisioni dei direttori di gara. I quali, così, vengono proditoriamente messi nelle condizioni di poter scegliere, di volta in volta, senza alcun paradigma certo. La lettura non giuridicamente orientata consente uno spazio di valutazione che le regole non assegnano, utilizzabile a piacimento, tanto da poter liberamente indirizzare la partita in un verso o nell’altro.
Sono stato messo alla berlina solo per aver proposto una elementare constatazione: e cioè, che l’Atalanta – pur riconoscendo i meriti indiscutibili del suo management, del suo allenatore e della sua rosa – pratica un gioco «violento», sostanzialmente intimidatorio, poco sanzionato dagli arbitri. Questi ultimi ‘protetti’ da insopportabili (perché infondati) luoghi comuni tralatizi. «Gioco maschio» o «all’inglese» (come se il Regolamento non fosse sempre lo stesso). «Metro arbitrale» (come se ogni arbitro potesse esser libero di far rispettare, oppur no, le regole). «Sport di contatto» (anche il rugby lo è, ma le sue regole consentono placcaggi, spinte, entrate di gioco, a dir così, ‘violente’; quelle del calcio no). «Lasciar correre» o «lasciar giocare» (come se l’efficacia delle regole possa essere a intermittenza, secondo la valutazione soggettiva del direttore di gara); ecc.
Insomma, quasi che la locuzione «gioco violento» fosse in sé un’offesa. In realtà, gli artt. 38 e 39 del Codice di Giustizia Sportiva contemplano espressamente sia la «condotta violenta dei calciatori» (che, per giurisprudenza consolidata, si ha quando l’azione sia caratterizzata da «intenzionalità e volontarietà miranti […] a porre in pericolo l’integrità fisica […], che si risolve in un’azione impetuosa e incontrollata connotata da un’accentuata volontaria aggressività»); sia la «condotta gravemente antisportiva» (che si caratterizza «per un “eccesso” di agonismo sportivo, durante un’azione di gioco»). Giocare in modo ‘violento’, dunque, significa praticare un calcio che gli arbitri tollerano in violazione delle regole. E questo anche laddove la condotta sia da qualificarsi ‘soltanto’ come «negligenza», o «imprudenza», o «vigoria sproporzionata» (le fattispecie prescritte dalla Regola 12).
Né più né meno che un vigile urbano, pure essendo tu passato col rosso, non ti sanzioni perché in fondo gli stai simpatico, giacché non deve necessariamente prestare ossequio alla legge, potendo far ricorso al suo «metro di giudizio».
Poi gridiamo allo scandalo quando vediamo che i giocatori di talento – guarda cos’è accaduto a Kvara contro la Lazio – vengono sistematicamente ‘picchiati’ dagli avversari (finendo per infortunarsi e privare la squadra del loro prezioso contributo), i quali restano molto spesso impuniti. Evviva la giustizia, evviva lo spettacolo del «campionato col verme», come lo chiama Ziliani".