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Guido Clemente di San Luca a TN "Gruppo rivitalizzato, ma c'è poco oltre la solidità"

di Arturo Minervini

Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Campania Luigi Vanvitelli, commenta così il momento di casa Napoli.

"Eccomi di nuovo. Dopo quasi un mese di doveroso silenzio in attenta osservazione dei fatti. Sì, proprio io, uno di quegli «ostinati gagà del pallone», riconoscendomi – ma solo in parte (non sono infatti «mosso da spirito dannunziano», né «indirizzato verso un esasperato estetismo») – nella definizione dell’amico Minervini (il quale, senza fare nomi, con ogni evidenza pensava a me e a quelli – non pochi – come me).

La infausta e travagliata scorsa stagione è stata veramente devastante se molte menti solitamente lucide mostrano una palese mancanza di lucidità. Abbagliate dall’aureola creata ad arte in-orno a Conte da abili professionisti della comunicazione mediatica. Mister che sin qui, obiettivamente, ha fatto molto, ma niente di straordinario. Ha semplicemente ridato anima ad uno spogliatoio che s’era desertificato. Ancora una volta. Come dopo l’infelice parentesi di Ancelotti.

Insomma, per ora si è solo rivista un’anima (e ci voleva Conte?). Perché l’identità di gioco, invece, è – ad esser generosi – assai approssimativa. Grinta, tenacia nella riaggressione della palla persa. Certo. Tutte cose che ci erano sempre state proprie. Salvo lo scorso anno (le responsabilità dello sfascio sono state acclarate e riconosciute dallo stesso autore). Altro che imparare a «sporcarsi le mani»! Un insulto alla intelligenza ed alla verità storica. Tranne che con Ancelotti, questa squadra se l’è sempre sporcate (e quasi sempre anche conservando eleganza). Tuttavia, prima, oltre a questo, abbiamo sempre fatto vedere calcio, anche col 3-5-2 di Mazzarri (non è questione di modulo, ma d’identità). Per adesso, poco o niente. Per carità, è giusto aspettare. Ma raccontare il falso no.

In realtà, soffre il tifoso azzurro vero, quello, per intenderci, che per tutta la scorsa settimana avrebbe volentieri chiesto al mister «Ma lei ha capito che partita è per i napoletani Juventus-Napoli?». Nessuno però gli ha fatto la domanda, inibita sul nascere dalle sue esplicite dichiarazioni d’amore per il non colore, apprezzate come manifestazione di onestà intellettuale e giustificate con una insopportabile malintesa accezione di ‘professionismo’ e ‘professionalità’, nel cui segno ci si consegna ad una tristissima omologazione. Conte è un professionista serio, onesto, autentico [«la mia storia parla chiaro, 13 anni alla Juve da calciatore, sono stato capitano per diversi anni, vincendo praticamente tutto. Ho avuto la possibilità di allenare 3 anni in un periodo difficile della Juve, aprendo un ciclo di 9 anni di Scudetti. Faccio parte della storia della Juventus per ciò che ho fatto e dato», e «nessuno me lo toglierà»]. Del resto, ha pure rivendicato la sua meridionalità [«Oggi ho il piacere davvero immenso di allenare una squadra come il Napoli, per me che sono del sud è orgoglio e soddisfazione», e «Ora sono già nella storia del Napoli, questo mi dà soddisfazione»]. Per me, però, non è sufficiente. Prima di tutto perché ancora non è così. E poi perché si percepisce nitidamente che il suo dichiararsi meridionale è strumentale, inautentico. Ancora con queste fesserie nostalgiche? Il calcio non è più questo. Come no? Andatelo a dire ai romanisti.

Comunque – dicevo – il tifoso azzurro vero, pur inconsapevolmente, soffre la schizofrenia tra l’essere tifoso, appunto, e l’esser competente. Nella persistente speranza che le due anime possano prima o poi riconciliarsi. Provo a spiegare. Nonostante avessi forti perplessità (da presunto competente), le mie urla (tifose), ai due gol di Lukaku e Anguissa contro il Parma, hanno letteralmente squarciato il silenzio del paesino dell’isola greca dove ancora stavo. Dopo uno stress infinito, che seguiva quello patito nelle partite con Modena, Verona e Bologna. Poi la larghissima vittoria di Cagliari (la prima dal ritorno a casa), assistita da un poderoso kairos. Non ho fatto in tempo a rientrare che ho dovuto assistere ad una intollerabile retorica celebrativa. La celebrazione di poco più del nulla. Finora invero si sono visti: 1) una confusione ed una contraddittorietà assolute nella campagna acquisti, peraltro conclusa mettendo su alla fine una rosa potentissima; e 2), sul campo, notevole vigore, ma gioco sostanzialmente privo di riconoscibili trame offensive.

1. Il mercato. Un merito ho sempre riconosciuto ad AdL, aver virtuosamente mantenuto il fair play finanziario. Oggi, al di là dei legittimi artifizi di bilancio, l’equilibrio fra entrate ed uscite èclamorosamente in rosso. Dimenticavo: «La vittoria non è importante, è l’unica cosa che conta». Il rispetto delle regole è degli stupidi. Stiamo rinnegando tutto ciò che di buono siamo stati in questi vent’anni. Una dissennata ubriacatura. Per di più, finora, generata soltanto da promesse. Il mercato è stato costellato da continui errori, condotto in modo sciagurato nel silenzio della critica. Marin (12 ml) non ha ancora visto il campo. Natan di fatto regalato. Ostigard quasi. Hermoso a costo zero lasciato andare alla Roma. Folorounsho, fresco nazionale italiano appena rinnovato per 5 anni, da «nuovo Vidal di Conte» all’improvviso diventa inutile, salvo poi reintegrarlo quasi senza spiegazioni. Sorte non dissimile per Cajuste. Svenduto il prodotto del vivaio Gaetano, l’unico a poter in qualche modo sostituire Zielinski. Quest’ultimo lasciato andar via con incosciente superficialità. Ngonge, talentuoso e pagato 20 ml a febbraio, resta di fatto come un peso. Idem Rui. La vicenda di Osimhen, poi, descritta come in un’allucinazione quale colpo di genio (fra parentesi, Victor vale almeno tre Lukaku, eppure, pur di demonizzarlo, si evidenziano solamente i suoi certo non commendevoli comportamenti). In poche parole, si giustifica l’ingiustificabile senza prendere atto della realtà, integralmente appiattiti sul trio AdL-Manna-Conte, e scegliendo di correre il rischio che l’eventuale fallimento dell’obiettivo tecnico (non voglia Iddio) possa determinare quello societario.

2. Il gioco. La squadra è indiscutibilmente rivitalizzata, ma non gioca bene. La nota positiva è la sua compattezza, ma tranne quello c’è poco. Ancora non si intravedono chiari schemi di gioco in attacco. A Torino, finalmente, s’è messo a tre in mezzo (si sapeva che Lobotka e Anguissa hanno difficoltà a giocare a due). A mercato chiuso, la rosa è fortissima. Gli scozzesi sono un’ira di Dio. Mc Tominay è addirittura strepitoso. Eppure, tuttora non adeguatamente sfruttato. Col 4-3-3, il mister ha a disposizione due squadre. Deve uscire dalle contraddizioni. Ad esempio, che senso ha, a Cagliari Mc Tominay e a Torino Folorunsho, al posto di Kvara? Nessuno, però, osa contraddire il nuovo profeta (fino a poco tempo fa considerato il prototipo del nostro contrario: io esc’ pazz’).

Qualcuno attribuisce al «tatticismo esasperato» l’esito esteticamente scadente della partita con la Juve. Il problema non è questo, ché in fondo è una conseguenza naturale del fine ultimo del gioco: fare il possibile per battere l’avversario. Il problema è riconoscere sé stessi nella competizione, per mettere a confronto le diversità e scoprire qual è vincente. Non si possono azzerare le peculiarità caratterizzanti. Mi domando: visto che «aver detto addio alla ricerca del bello» non sarebbe questione di identità, che senso ha tifare azzurro? Tifare per il Napoli è uguale a tifare per un’altra qualsiasi squadra? Dobbiamo negare la nostra specificità? L’unica cosa che conta è la vittoria? Così ragionando, si finisce per sposare la logica del prepotente. Il male si vince col bene, non adeguandosi ad esso perché, se no, vince due volte. Vorrei vincere senza rinnegare il mio modo di essere.

In definitiva, chiarisco. 1) Non sono «pessimista», altrimenti non starei dinanzi alla tv a soffrire dannatamente; 2) men che meno sono un «tirapiedi piagnone», mi sforzo di osservare i fatti rigorosamente, commentandoli del tutto privo di ogni qualsiasi precomprensione; 3) nemmeno sono «disfattista», ribadendo che bisogna capire chi si adoperi effettivamente per il bene azzurro; 4) da tifoso, coltivo sempre la speranza, pur se, da aspirante competente, penso diversamente dal coro plaudente; 5) non avverso il Presidente, ma giudico senza veli il suo operato; 6) valuto ciò che fa Conte senza preconcetti, anche per verificare se e quanto resta fedele alla ‘cultura juventina’ (della quale ha dichiarato, quasi orgogliosamente, di non voler fare abiura); 7) non «tiro manifestamente i piedi» a nessuno, profondamente convinto che la mia fede azzurra è ben più consistente di quella dei vari pretoriani del Presidente; 8) non odio, è sentimento che proprio non mi appartiene; 9) resto malato dell’azzurro, nessuno me lo può impedire, e nemmeno di esprimere pensieri non omologati (si fa evidentemente fatica a comprendere la differenza che ho provato a spiegare tra bene collettivo e bene privato); 10) non siamo noi quelli «che cercano di vendere una verità differente dalla realtà», ma coloro che cavalcano la retorica dello «sporcarsi le mani nel terreno», avallando un racconto che mistifica la storia del Napoli (almeno degli ultimi lustri, ma anche andando indietro con la memoria fino agli anni a cavallo fra i ’60 e i ’70 del secolo scorso).

Forse le riflessioni critiche fanno bene. No? Dovendo, comunque, scegliere fra supposizioni, meglio quelle stimolanti che quelle plaudenti. È saggio professare ottimismo con prudenza".


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