Guido Clemente di San Luca a TN: "Ho pianto per Insigne, Lorenzo non ha tradito Napoli"
Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Campania Luigi Vanvitelli, ha espresso per Tuttonapoli le sue considerazioni sulla stagione azzurra.
È tempo di cominciare a fare il bilancio dell’annata. Mi pare giusto farlo dividendolo in due parti. Una per il profilo, a dir così, ‘antropologico’. L’altra – che proporrò subito dopo – per il profilo tecnico. Quanto al primo, si deve riflettere sul tifo azzurro, sul rapporto ‘speciale’ fra città e squadra, sul modo di vivere la nostra agorà, lo stadio Maradona.
E la vicenda che più di altre restituisce nitidamente i termini del problema è quella di Lorenzo Insigne. Accusato – gratuitamente – di essere, non una bandiera, ma ‘soltanto’ «noi». Ci rappresenterebbe perché s’identifica con la nostra connaturata mediocrità. Che merita quel senso di disprezzo riservato al «cafone», perché incarna l’anima plebea e pezzente della città. Quell’anima che però anche chi dispensa quest’acidità, commiserando se stesso, comunque riconosce di avere. Ma purtroppo. Perché l’anima bella – quella che dovremmo voler avere, ma non possiamo – corrisponde all’idealtipo mitteleuropeo, consistente di cose ‘giuste’, fatte per bene, politicamente corrette.
Ebbene, io non mi vergogno di essere quello che sono. Non ho crisi d’identità. Sì, sono quella cosa là, che tanto dà noia alla ristretta cerchia di (sedicenti ed autoreferenziali) intellettuali, un po’ spocchiosi nel rievocare di fatto le virtù della rivoluzione partenopea del ’99 senza tuttora esercitare – dopo quasi due secoli e un quarto – alcun senso critico sulle cause del suo fallimento. Incapace di intelligere l’anima vera, intimamente contraddittoria, di questa città, di questo popolo. Al vano inseguimento di un neo-illuminismo ‘peloso’. Purtroppo bisogna adoperare un lessico farisaico, ed evitare di replicare sì come meriterebbe alla intollerabile aspra acredine vomitata addosso a «nu figlie ‘e chesta terra», che avrebbe il torto di andarsene «pe’ s’arrecchi’».
Evidentemente in questi pensieri riemerge la mia origine aristocratica, il relativo sentire riconoscendosi molto più in quello della plebe che in quello della borghesia. E domenica ci sono andato. Perché avvertivo dentro che lo dovevo salutare. Ebbene sì, «tenev’ genio e me mettere ‘a chiagnere». Perché qualunque fosse l’umore soggettivo, comunque l’evento andava vissuto. La comunità in cui si vive richiede di prender parte alla vita collettiva, ai suoi riti ed alle relative liturgie. E, almeno in parte (su questo tornerò alla fine), ho sentito il popolo azzurro commuoversi insieme. Bisognoso di vivere emozioni, e privo di quella intollerabile presunzione che consumerà l’anima dei cercatori del respiro internazionale, consegnati alla loro triste solitudine emotiva. Perché, checché se ne dica, s’è vissuto un momento di grande emozione, c’era autentica commozione.
Peccato per chi se l’è voluto perdere. Io proprio non li riconosco i miei ‘fratelli’ senza rimpianti. Ma perché? Invidia per il suo talento? Per quel naturale controllo della palla capace di farle descrivere traiettorie di passione? Veramente si può non riconoscere che attualmente sia il più talentuoso calciatore italiano? O dire che gli sia mancato «il coraggio di mettersi in discussione», o che abbia «avuto paura dell’ignoto»? Affermare che è «rimasto con un solo tiro, con un ruolo e mezzo», e abbia rifiutato «di imparare e migliorarsi», può significare soltanto una delle due: essere o molto miopi, o adusi a raccontare il falso. Ha sudato, ha sgobbato, s’è sacrificato, sebbene il talento avrebbe potuto consentirgli di approfittarsene. Cos’altro avrebbe dovuto fare per essere all’altezza?
Il malumore ed il pessimismo di cui Napoli non ha bisogno sono propri di chi pensa e afferma che Insigne è «presuntuoso e pigro» come i napoletani. Paragone che non sta in piedi, sia perché lui s’è impegnato a fondo e in umiltà. Sia perché – e qui il paragone è improprio in radice – noi non siamo affatto pigri. Semmai refrattari a rispettare regole etero-definite. Men che meno siamo presuntuosi. La presunzione alberga proprio nell’anima e nella testa di chi anela a vedere Napoli perfettamente omologata alle altre metropoli occidentali. Noi abbiamo imparato dalla storia a praticare l’umiltà. La furbizia, quella sì, ci appartiene. E ci siamo compiaciuti di vederla esaltata al massimo nel gesto della mano de Dios.
Ma Insigne non l’ha praticata nel rapporto con la società. Perché, è vero, un’offerta gli era stata fatta. Ma era obiettivamente irricevibile. E lui avrebbe anche rinunciato al lauto ingaggio canadese (quasi triplicato), se solo gli fosse stato confermato quello che percepiva. Altro che. È stato un capitano vero. E non degli «obiettivi falliti». I fallimenti sono stati causati da fatti non ascrivibili alla sua responsabilità. Alcune volte il ‘sistema’, altre il presidente, altre il mister. E diciamolo, mettendo da parte ipocrisie benpensanti: quel tanto inopinatamente richiamato ‘ammutinamento’ (cui pure lui partecipò) fu sacrosanto.
Io perciò mi sono commosso. Perché Insigne – come Marek, e diversamente dall’argentino borghese – non ha tradito. È rimasto fedele alla maglia e alla terra. No Lorenzo, noi che sentiamo di appartenere al popolo, il passato non ce lo scordiamo. E i tuoi 10 anni rimarranno scolpiti nel nostro cuore. Perché la verità è che in quella invidia c’è la negazione della nostra essenza. Noi siamo gente d’amore. E nell’amore si può pure litigare. Anzi talvolta si deve. Il rammarico è uno solo. Che quel triangolo agognato non sia arrivato al tramonto della sua storia da noi. Sarebbe stato meraviglioso. Ma se non è accaduto non è stato per causa sua. Ah, se chi, semplicemente restando coerente con se stesso, non avesse commesso errori inspiegabili! Ma questo è oggetto dell’altro bilancio.
Un’osservazione conclusiva utile in prospettiva. Nel salutare Lorenzo, lo stadio non era uguale. Quando ci fui portato la prima volta avevo 8 anni, e mi venne trasmesso subito il senso della sofferenza, della cum passio. Domenica, durante la partita osservavo sgomento la gente che saliva e scendeva per le scale (oggi insopportabilmente libere!), spalle al campo con bibita, patatine e cellulare. Le curve compatte (e non solo) hanno voluto segnare differenza nel testimoniare amore per il capitano, rimarcando la disapprovazione per presidente e allenatore. Se si vuole andare avanti bisogna tener separato l’amore dall’analisi critica. Esercizio, quest’ultimo, che sembra non assistere gran parte della stampa. Che – salvo virtuose eccezioni – si prodiga ancora una volta per ‘ricucire’ senza affrontare la questione vera: il distacco profondo della proprietà dalla passione popolare, che così va inesorabilmente edulcorandosi.