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Da 0 a 10: la figura di mer*a mondiale di Acerbi, il mistero sulla ‘talpa’ Zielinski, l’infiltrato in panca e la nuova Hit su Lindstrom

di Arturo Minervini

Zero a quelli che sono così coglioni che pensano che il colore della pelle possa essere qualificare la persona che sei. Acerbi crede di insultare Juan Jesus chiamandolo ‘Negro’, senza comprendere che sta offendendo la sua, a questo punto presunta, intelligenza. E non ce ne facciamo nulla delle scuse, nemmeno di quell’altro scienziato di Dimarco che dice ‘Si sono chiariti, che problema c’è?’. Il problema è non capire, non comprendere, non riconoscere la propria inadeguatezza a vivere in una società che, non può e non deve, più tollerare certi comportamenti, figli di squallide ideologie e triviali abitudini. Acerbi andrebbe squalificato, per un anno. Dal calcio, dalla società civile. Messo in punizione a riflettere, sul suo cervello. Acerbo, pure quello.

Uno il punto, questo è il fatto. Poi ad ogni evento, va applicata la didascalia, bisogna provare a spiegarlo in quel processo che si chiama analisi. Quindi, prima di ogni analisi, vengano ammainate le bandiere, le amicizie, i favori da ricambiare. Pareggiare a Milano con l’Inter è un risultato positivo, per quelle che erano le premesse e per la forza dell’avversario. Chi invoca ancora Mazzarri, dopo i disastri che ha fatto, meritano di essere descritti con le parole di Saramago: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono”.

Due le amichevoli in programma per la Nigeria nella sosta ed una considerazione da fare. Osimhen non è sceso in campo a Milano, ha questo affaticamento muscolare che dovrebbe condurre le parti ad una valutazione serena: deve restare a Napoli. Perchè la squadra che lo paga dieci milioni all’anno ha già dovuto rinunciare a lui per due mesi, sarebbe scellerato immaginare di vederlo impegnato in qualche amichevole, quando il suo club si gioca il tutto per tutto nel rush finale di campionato. “Nessuno è più povero di colui che non ha gratitudine” caro Victor. Ti consigliamo una metà esotica per la sosta: Castelvolturno. 

Tre allenatori in sequenza, Calzona il primo tra questi che non ha chiesto alla squadra di pugnalare la propria natura. Tutt’altro. Sta provando ad assecondarla, come un padre che dona al figlio il più prezioso dei doni: la libertà di essere se stesso. Il Napoli prova, senza avere ancora rodato quegli ingranaggi che prima sembravano muoversi come la schiera dei Serafini in Paradiso, a recuperare quel tipo di identità. Sbagliando, concedendo, commettendo palesi errori: è il prezzo da pagare per, almeno provarci, a recuperare quel tipo di impostazione. “Ricorda chi eravamo” fu l’ultimo ordine che Re Leonida diede ai pochi sopravvissuti dei 300 Spartani. Ci sta provando anche Ciccio. 

Quattro minuti e Barella rifila un calcio che manco in uno scontro Goku-Vegeta, forse per omaggiare la scomparsa di Akira Toriyama. Lo segue a ruota Acerbi, che al 41’ affonda sulla caviglia di Raspadori. I due interisti restano impuniti, mentre Lobotka si prende un giallo per non aver commesso il fatto, per un fallo che manco era fallo. Al 53’ Barella si becca un giallo, nel migliore dei mondi possibili sarebbe stato il secondo, ma questo mondo è marcio. “I dilettanti rincorrono il sole e poi si bruciano. Il potere resta nell’ombra”. Quante schifezze in questa Serie A.

Cinque avversari a ringhiargli addosso, ma difficilmente perde la calma. C’è una capacità di gestire la pressione in Lobotka che ricorda quello delle madri, che non si spaventano nemmeno dinanzi ad una orda di borseggiatori saliti sull’R5 alla stessa fermata. C’è in Stan una mirabile capacità di prendersi i suo tempo, come accade nell’antica arte tramandata per generazioni dello spaghetto spezzato nel brodo. Stan fa le piroette, sterza, capisce in anticipo come occupare gli spazi manco fosse il 13enne americano che ha mandato in tilt Tetris. Come le mosche, ha una percezione rallentata della realtà che gli permette di schivare tutti i colpi. Il futuro è Stan, a prescindere.

Sei punti dalla Roma per mantenere accesa una speranzella Champions, con quel quinto posto che può valere oro. In bilico, come Stallone nell’epica scena sul ponte sospeso di Cliffhanger. Aggrappati, con la volontà che spinge più del cuore. Aggrappati, con l'ultima parte dell'orizzonte che concede ancora un pochino di azzurro. Un pochino che basta a rendere questa stagione meno amara. Servirà una stretta forte, salda, forgiata nello spirito di uomini che alla loro parola danno ancora un peso fondamentale. Ci crederemo se ci crederete, ci crederete se ci crederemo. 

Sette partite con Calzona in panchina, dei progressi e qualche rimpianti per alcune situazioni che i singoli avrebbero potuto gestire meglio. Dal pasticcio nel finale di Cagliari, allo spazio concesso a Sanabria, per arrivare agli errori sotto porta. A iscriversi al libro degli orrori anche Lindstrom, che ha girato in gran segreto la versione distopica di ‘Una settimana da Dio’. Eroe in negativo a Barcellona, trova il modo di pasticciare anche nei 120 secondi in campo a San Siro, non passando un pallone a Ngonge che poteva andare solo davanti a Sommer. Phil Jackson, guru dei Chicago Bulls e dei Lakers, diceva:“Il carattere di un giocatore è più importante del suo talento”. Hit di Jesper: ‘Vorrei ma non passo’.

Otto al colpo di genio di gennaio. Ho Demme, che quando entra non sfigura mai, pure se lo tieni in cantina per tre mesi al buio lo tiri fuori e dà in campo tutto ciò che può. Cosa mi invento? Prendo Dendoncker, che nemmeno i custodi di Castelvolturno riconoscono, dopo tre mesi di anonimato da fare invidia a Joe Pistone in Donnie Brasco. Per il belga in totale 21’ di Garbage Time e la scocciatura di dover mostrare un documento di riconoscimento per accomodarsi in panchina. “Un paio di scarpe durava una vita, e se andavi scalzo, d'estate, risparmiavi le scarpe e i piedi si rinforzavano”. Soldi buttati, professionalità di Demme calpestata.

La prova del Nove, chissà se i conti torneranno. Inizia l’ultimo atto di questo mistero buffo chiamato campionato, di una squadra che ha tanto da farsi perdonare, di una società che ha tantissimo da farsi perdonare. Il segnale che arriva da San Siro è incoraggiante, l’impulso vitale lanciato non va sottovalutato. Restano sulle pareti dell’anno orribile gli affreschi di scelte fatte ad minchiam, come la gestione del caso Zielinski che andava o rinnovato o ceduto la scorsa estate. Contro la sua prossima squadra sembrava dover entrare, poi s’è fatto marcia indietro, in un anno caratterizzato da questa continua incapacità di prendere decisioni forti. Il non scegliere ci ha portati in queste sabbie mobili. 

Dieci alla serietà di Juan Jesus. che immerge corpo e spirito nella missione che gli viene affidata. Si ritrova titolare di questo Napoli e non arretra di un centimetro dinanzi alla chiamata alle armi. Solido, concentrato, robusto come un albero che ha radici profonde nel terreno, che non si lascia vincere dagli spifferi delle malelingue. Flusso continuo di energia, idee, soluzione alternative in zona gol a bassa emissione di superbia. Viva l’umiltà dei semplici, che cambiano il mondo ogni secondo. Con le azioni, con le denunce di quel ‘Non va bene’ ripetuto più volte. Un labiale che inchioda Acerbi alla sua pochezza e che al gol del brasiliano ha provocato un godimento triplo. Nessuno tocchi BatJuan, che se tutti ci avessero messo la sua voglia…

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