Da 0 a 10: le pecore nere di Spalletti, il terrore di Simeone, le facce di caz** a Milano e i tromboni dell’apocalisse
Zero a questa depressione che nemmeno dopo un film generazionale di Muccino. Le prospettive della vita collocano questa vittoria sporca e sudata nel chiaroscuro, solo perchè segue il crollo col Milan. In altri tempi avremmo celebrato lo spirito, la capacità di andare oltre le serate di poca ispirazione. E invece, come sempre, suonano già le trombe dell’apocalisse. La misura, tutto ciò che servirebbe ora. Dubitare ora non serve. I dubbi sono come la fame quando sei a dieta: cerchi di farla uscire dalla testa e ritorna come un serpente che striscia. Direbbe Pino: “Ma i' quanno vego a vuje ma vesto a lutto. Pecchè parlate sempe a vocc'e raja”
Uno il gol subito, che è forse lo specchio di quella stanchezza rivendicata da Spalletti nel dopo gara. Quei centesimi di secondo, la testa che anticipa il corpo, un pallone da spazzare prima che ci arrivi l’avversario. Il Napoli in questo momento ha bisogno di coccole, di sentirsi protetto. Casa è il posto dove si curano gli affanni: l’ambiente sia casa. Milano sia azzurra. Il popolo è chiamato a raccolta.
Due Napoli a confronto. Dopo le ‘pecore nere’ di De Laurentiis, anche Spalletti lancia l’avvelenata, silenziosa, al blocco dello scorso anno: “Poca voglia di lottare rispetto ai ragazzi di quest’anno”. Analisi interessante, che spazza via molte delle convinzioni sul pallone e sullo sport: il coraggio, ci insegna Don Abbondio, nessuno può darselo se non lo hai. Il carattere non ha età.
Tre punti con un gol di quelli sporchi, che nemmeno Tom Hanks dopo anni da Cast Away su un’isola deserta. L’autogol della premiata ditta Gallo-Falcone ha quasi uno scopo didascalico per le rivali, gettare acqua gelida sulla loro fiammella di speranza spenta da tempo. Le avversarie speravano in un Napoli Narciso, invece lo specchio che usa per testare la sua bellezza viene macchiato sempre più dal meraviglioso sudore della fatica e del lavoro. Che pagano, sempre. Unica nota dolorosa: vedere Simeone a terra, due volte, con gli occhi tristi.
Quattro vittorie per quel sogno che, sennò Spalletti si incazza, rimane ancora un sogno. È un traguardo, però, ora è a portata di sguardo, un orizzonte meraviglioso che sembrava mero miraggio in estate. Non commettiamo l’errore di banalizzare, di trovarci in mano un capolavoro senza tempo e non dedicargli la giusta attenzione. C’è da perdersi in questo campionato, abbandonare i sensi ad una stordente bellezza. Quelle facce col broncio dopo un’altra vittoria, la 31esima in stagione, non hanno nessuna giustificazione. Tutto il resto è gioia, canterebbe un ‘Califfo’ stranamente ottimista…
Cinque giorni ad una serata di festa a San Siro. Il Milan con lo 0-0 all’Empoli dimostra di soffrire gli spazi stretti, un suggerimento per Spalletti che passerò notti insonni, alla ricerca della strategia migliore. Servirà leggerezza, per modellare ali di cera e non lasciarle sciogliere da una temperatura incandescente nel fortino del Diavolo. Icaro si sarebbe salvato se non si fosse lasciato vincere dall’ebrezza del volo. Serviranno quelle facce di ca**o che da otto mesi dominano il campionato.
Sei all’inossidabile Lobotka. È fatto di una lega che va a combinare un metallo solido e dinamico, una commistione di genere che darebbe vita ad un circolo letterario di altissimo livello. Prosa e poesia, tecnica e fisicità, rapidità e visione di gioco che si mischiano in un curioso gioco di vasi comunicanti. Nel momento di difficoltà, si prende quelle responsabilità che appartengono a quelli che hanno il piglio dei condottieri. Si può essere decisivi, anche mostrando una versione differente. Elasticità.
Sette trasferte vinte consecutivamente: non era mai accaduto nella storia. Mai. Accade nella vita di dover stare in silenzio, prendere atto di un fatto e restare in qualche modo estasiato. Come Michelangelo dinanzi al suo Mosè che lo interroga sul perché “Non parli?!. Come dinanzi ad una suocera che sta in rigoroso silenzio. Come dinanzi ad una pizza da Michele a Forcella. Non c’è davvero niente da aggiungere al cammino in trasferta di un Napoli a suo agio fuori casa come nemmeno Macaulay Culkin dimenticato a New York.
Otto all’assist-man più improbabile. Sembra Kvara per come taglia quel pallone perfetto, che sembra fatto su misura per la capoccia di Di Lorenzo. In risalita Kim, con tutta la sua granitica convinzione di difendere la sua porta, in ogni modo possibile come un Ronin fedele al suo scopo. Sta recuperando splendore, dopo viaggi oltreoceano che ne avevano consumato euforia ed energia. Se ora si mette pure a fare gli assist, nessuna clausola sarà mai troppo alta.
Nove ad una squadra che ha scelto di essere squadra. Sembra tautologia ma non lo è affatto. Questo gruppo ha scavato una buca gigante, ci ha infilato dentro tutti gli individualismi, e l’ha ricoperta con un terreno massiccio. È l’uno al sevizio del tutto, puntini singoli che si mettono uno accanto all’altro per creare una retta destinata all’infinito. Come nei racconti leggendari di uomini che hanno sacrificato il loro spirito a difesa di un ideale, pronti a cancellare il nome che hanno scritto dietro le spalle, per portare alla gloria lo stemma che hanno stampato sul cuore prima che sul petto. “I nostri ideali, come gli dei antichi, ci chiedono costantemente sacrifici umani”. Lo scudetto si vince anche con gare come quella di Lecce.
Dieci al Capitano: anima, cuore, cervello e corpo. E pure la capoccia con un gran gol. Dopo la rete ha chiamato tutta la squadra a raccolta verso la panchina, per ricordare cos’è la cosa più importante: il gruppo. Andare, sulla fascia, un piede davanti all’altro, con Giovanni che avanza nella sua perfezione. L’equilibrio che diventa uomo, la volontà che si impone sempre sull’indolenza. Corre, recupera, crossa per Elmas, sempre con la stessa faccia, sempre con la stessa voglia. È tornato ad arare quella corsia destra, esaltante esaltazione della pacatezza di chi non ha bisogno di urlare per farsi sentire. Di Lorenzo è fatto della stessa materia di cui sono fatti gli uomini con le palle.