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La storia siete voi: Faustinho Canè, l'O Rey del calcio Napoli

di Leonardo Ciccarelli

Nel 1962 mentre Vavà vinceva il titolo di capocannoniere del mondiale, il secondo vinto da Pelé, il presidente del Napoli Achille Lauro decise che era giunta l'ora di dare una strigliata all'ambiente calcistico partenopeo che non viveva uno dei suoi momenti migliori così convocò nel suo ufficio Josè De Gama, uno dei primi grandi procuratori, e gli chiese di visionare qualche giocatore. Essendo all'inizio degli anni '60, quando il mondo non aveva vissuto neanche la Beatlemania, capirete che il metodo per "visionare un calciatore" da parte di un super impegnato presidente non consisteva nel guardare DVD o fare lunghissimi e costosi viaggi intercontinentali, ma consisteva semplicemente nel visionare foto. Da Gama aprì la sua valigetta e porse delle semplici istantanee a Lauro, corredate di descrizione, che le osservò fino a che non scorse il calciatore che sarebbe stato un crack nel calcio italiano: Jarbas Faustinho Canè.
Ma come faceva un, seppur illuminato presidente, a decidere su due piedi di sborsare 30mila dollari per un calciatore di una squadra nemmeno celebre del campionato di Rio De Janeiro senza nemmeno consultare i suoi tecnici, nonché uomini di fiducia Pesaola e Monzeglio? La soluzione è presto detta. Lauro fu folgorato dal colore della pelle del calciatore infatti si dice che quando vide la foto del brasiliano esclamò "Chist me piace perché è 'o cchiù nir 'e tutt quant! Chist fa metter paur a tutt 'e difensor".
Sembra una classica storia di mercato, troppo romanzata per esser vera ma vi assicuro che andò proprio così e a confermarono fu lo stesso calciatore qualche anno fa.
La storia italiana di Canè comincia qui. A tavolino perché lui a tavolino doveva rimanere visto che la sua famiglia, una famiglia benestante di un quartiere residenziale di Rio, non voleva assolutamente vedere il proprio bambino perder tempo sui campetti polverosi insieme ai bimbi poveri. I signori Canè volevano vedere il proprio figlio studiare per diventare avvocato e volevano anche che negli anni di liceo il ragazzo avrebbe dovuto lavorare in un'officina per temprarsi ma si sa che chi non ama il calcio non riesce a capire la spinta emozionale che una sfera riesce a dare perché "Chi dice che il calcio è questione di vita o di morte non ha capito niente. È molto di più".
Canè a questa cosa ci credeva ed un giorno si ritrovò nell'Olaria prima e come avrete intuito, nel Napoli poi.
Il suo arrivo a Napoli fu disastroso. Non venne certamente presentato in grande stile ma le sue prestazioni dissacravano l'idea stessa di calcio visto che come un Quaresma degli anni '60 ogni suo tiro finiva per essere considerato un oggetto volante non identificato.
I napoletani, che presero in simpatia il ragazzo al suo arrivo, lo elevarono a capro espiatorio per l'ennesimo deludente campionato e addirittura Massimo Ranieri ricorda che, quando andò a vedere una partita in curva, si elevavano cori e frasi diffamatorie nei suoi confronti, del tipo "Canè nun si manc nu can! Si na pecora!" e lo stesso Canè ricorda che la stampa ci andò giù pesante con lui ma l'anno successivo arrivò uno degli allenatori più illuminati che la storia del calcio Napoli abbia mai avuto e comprese che il ruolo di Canè non poteva essere il centravanti dall'alto del suo metro e settantuno ma l'ala destra e allora il piccolo brasiliano si scatenò e ben altri cori si sentivano al San Paolo in suo onore: "Didì, Vavà e Pelé sit 'a guallera 'e Canè".
Didì, Vavà e Pelé erano le tre punte di diamante del Brasile bi-campione del mondo ma i napoletani non si inchinavano al Re perché Napoli sapeva che il suo re sarebbe arrivato e quindi trovò in Canè un degno principe che non ebbe mai la fortuna di vincere qualcosa di importante ma che seppe imporsi in ogni sua realtà.
Insieme ad Altafini e Sivori, con Pesaola in panchina, compose uno dei tridenti più forti del calcio italiano ed anche uno dei più incompiuti. Ferlaino lo cedette a Bari dove fece appena tre campionati, due dei quali in B ma neanche in Puglia è stato mai dimenticato e il cinema italiano ne presenta un esempio lampante. Il nome del "Allenatore nel pallone" interpretato da Lino Banfi è Oronzo Canà e il suo cognome è proprio ispirato alla piccola ala brasiliana.
Canè tornerà a Napoli per giocare sotto la guida corsara di Luis Vinicio e nel suo calcio totale, (perché il calcio totale lo ha importato 'O Lion in Italia, non Sacchi), si ritirerà a 35 anni, nel 1975 ma non andrà mai via da Napoli perché "Napoli gli ha dato tutto" a quanto dice. La fama, una casa e la famiglia ma quando una città ha l'onore di incontrare un uomo di tale caratura il minimo che può fare è dare tutta se stessa per rendere grande il suddetto.
Ancora oggi Canè vaga per il Vomero in mezzo a dei ragazzini ignari che neanche lo conoscono ma a lui non importa e nemmeno a me. "Chi ama non dimentica" si diceva una volta...

Grazie Canè!


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