Guido Clemente di San Luca a TN: "Dalla gioia incontenibile al malumore per la vicenda Spalletti"

Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Campania Luigi Vanvitelli, ha espresso alcune considerazioni sul momento di casa Napoli.

13.06.2023 16:00 di  Redazione Tutto Napoli.net  Twitter:    vedi letture
Guido Clemente di San Luca a TN: "Dalla gioia incontenibile al malumore per la vicenda Spalletti"

Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Campania Luigi Vanvitelli, ha espresso alcune considerazioni sul momento di casa Napoli.

"Da qualche giorno avverto nel profondo una diffusa sensazione di malumore. Sono facilmente irritabile. Provo ad interrogarmi sul perché. Mi rispondo che in fondo non è così strano. Che si spiega se sei appena un po’ sensibile, se non lasci che tutto ti scorra addosso nella indifferenza. Al netto delle singolari vicende dolorose della vita di ognuno, come fa a non deprimere, a non necrotizzare l’umore, la mera osservazione delle guerre e la loro stupida e gratuita atrocità. Le immagini scorrono davanti ai nostri occhi mentre facciamo le cose di tutti giorni, nell’intimo consolandoci col sentire che tutto sommato non ci riguardano direttamente. Il cambiamento climatico che, in una generalizzata ed irresponsabile vacuità, genera eventi meteorologici estremi, inquinamento, malattie, fame, migrazioni forzate. Come fai a non essere turbato, a non sentirti contrariato. La disarmante inanità di qualsiasi sforzo per invertire la rotta. La rassegnazione.

E poi – posto che sia accettabile – nemmeno riesci a trovare conforto nelle piccole vicende che ci riguardano più da vicino, nel quotidiano. In quell’oasi di sospensione dai cattivi pensieri rappresentata dal pallone, dal Napoli, dalla sua strepitosa vittoria. Il disappunto e l’irritazione, infatti, si moltiplicano col registrare la supina accettazione della ‘normalità’ dell’illegalità, il paternalismo insopportabile e l’ipocrisia diffusa con cui viene condito il racconto della vittoria e del futuro.

1. Anzitutto, il notevole dispiacere per non esser stati noi a giocare la finale di Champions. Spalletti avrebbe meritato di gustarsi il caffè turco con Guardiola. Sì, l’Inter ha giocato una partita sapiente e gagliarda. Ma che brutta partita! Se si fossero incontrate Napoli e City – ne sono certo – avremmo goduto di una finale scoppiettante. E invece no. C’è stata negata – assai più che da qualche nostro errore – da direzioni arbitrarie palesemente illegittime. Ed uno dei due artefici del misfatto è stato persino premiato, vedendosi assegnata prima la semifinale e poi la finale. Una vergogna! Che doppia quella dell’indecente, impudico, patteggiamento sui clamorosi illeciti reiterati per anni dalla Juventus. Un lavacro con acque putride, tanto nauseanti da preoccupare seriamente per la sopravvivenza dello sport nel segno della lealtà (che ne costituirebbe la caratteristica ontologica).

2. In secondo luogo, l’insopportabile paternalismo, di cui veramente abbiamo piene le tasche. Ancor più fastidioso se intestino, proveniente cioè da opinionisti nostrani, non dai commentatori ‘fuori delle mura’, dai quali per consuetudine e consolidata tradizione ce lo aspettiamo.

Ci blandiscono affermando che non siamo «imbecilli», perché non pensiamo «che con la vittoria in campionato va tutto a posto e ci si può risparmiare la fatica di vivere». Come se per noi fosse una novità. Ci ricordano, col dito ammonitore, che per «festeggiare» prima bisogna «sudare». Come se fossimo un popolo di infingardi. Ci rimproverano perché non capiamo «il nocciolo di razionalità» che starebbe dentro al «traguardo sportivo», il quale sarebbe frutto, non tanto «dell’estro felicissimo» dei giocatori, quanto piuttosto della «organizzazione, programmazione, applicazione». Ci esortano a vedere come il «destino sportivo» e «quello della città» non siano «la stessa cosa». E però «aprire un ciclo sportivo» potrebbe far sì che si «trascini dietro anche un pezzo più grande di futuro». A patto che riusciamo «a guarire dal fatalismo, dal vittimismo e dal disincanto» (che sarebbero più nocivi «dell’euforia e della smania di queste giornate»). E che, se facciamo «i napoletani», lo scudetto ci può insegnare che «sta molto poco dentro la sua rappresentazione, dentro la coreografia e la stereotipia della città».

Ci spiegano, come a scolaretti ignoranti e svogliati, che far festa per lo scudetto «da almeno due mesi» è troppo. Che occorre «rimuovere tutto» al più presto, «prima che il gran pavese azzurro che infiocchetta Napoli degradi in pattume». E quasi a voler prevenire l’obiezione, ci si rimprovera citando Pinuccio, perché «Napoli non dev’essere “na carta sporca”», visto che viene festeggiata «in una mostra al Louvre, con una kermesse parigina che la fa risplendere in tutta la bellezza delle sue manifestazioni d’arte». Come se quell’arte non avesse trovato genesi proprio nella complessità e nelle contraddizioni che tengono insieme il tutto, in una peculiare ed inspiegabile unicità.

È vero, «la cura dovrebbe essere al centro di tutto», nel pubblico e nel privato. Si tratta di convenire per cosa bisogna aver cura. Personalmente, rimuoverò l’azzurro dal balcone quando partirò per le vacanze. E ciascuno nel suo piccolo farà come si sente. Perché l’unica accettabile «strategia per l’umana convivenza» sta nel rispetto della ‘diversità’, nel seppellire la intolleranza per tutto ciò che è diverso dal mio modo di vedere la vita e il bello. Sì, le mamme dicevano «Finito di giocare, si deve togliere tutto di mezzo». Appunto. Il paternalismo. Quelli ‘buoni’ hanno consentito a quelli ‘cattivi’ di «decorare, addobbare, imbandierare». Ma poi insegnano loro che viene «il momento di mettere in ordine». Perché dobbiamo evitare di farci «canoscere». Come se la città non fosse «piena di turisti» anche per questo modo di essere incomprensibile ai più. Che sarebbe autolesionista. Dovremmo cancellare le tracce del piacere «soprattutto per noi stessi». Come se in ciò starebbe il rispetto «verso la nostra città». E, invece, sarebbe meglio usare anche per Napoli le parole della canzone di Jovanotti: «a te che sei, semplicemente sei» quella che sei.

Si rassegnassero. Il terzo scudetto non è molto «altro dai precedenti». E non molto «altra è la città». Non soltanto per il medesimo «entusiasmo incontenibile». Bensì, proprio per la ‘napolitudine’ (né ‘napoletanità’, né ‘napoletaneria’), la fisiologica attitudine di Napoli, che è né migliore né «deteriore» di altre. Semplicemente è. Napoli è capitale esattamente perché resta, insieme, tutto ed il suo contrario. Senza alcun esibizionismo giustapposto. Ma pure senza farisaici infingimenti.

E il Napoli è senz’altro «una squadra fortissima», nella rosa dei calciatori ‘cosmopolita’ (carattere accentuato dalla globalizzazione), in piena coerenza con la millenaria storia della città. Tuttavia, la sua «struttura aziendale» è tutto fuorché un modello virtuoso. Basata, com’è, in via esclusiva sulla non comune astuzia, sul fiuto e l’intuito formidabili (anche nel presagire la decisività del tenere in ordine i bilanci), del suo padre-padrone. La cui figura è perfettamente coerente con quella tradizione insieme di polivalenza e ambiguità della città.

È un falso che Napoli sia priva di senso collettivo. Ho avuto modo di ripeterlo più volte, richiamando il pensiero di Masullo. Il senso «di identità collettiva» non ha affatto «preso corpo» col «primo scudetto del Napoli». È nelle radici profonde della città. Ed è un gravissimo errore, soprattutto per chi fa scienza, non assumere il dato della realtà (che il popolo azzurro viva la vittoria «come un riscatto da frustrazioni di lunga data», anche perché altrimenti si negherebbe la questione meridionale), per studiarlo senza precognizioni imbevute di velleitarismo deontologico.

Non è certo per il terzo scudetto che, «nella società dell’economia e dell’intelligenza artificiale», Napoli occupa «un ruolo di primo piano». Lo fa così com’è. Nel suo disordine ‘ordinato’. Nelle sue incomprensibili contraddizioni. L’azzurro si scolorirà dai suoi muri lentamente, quando lentamente evaporerà nella coscienza della sua gente il gusto della vittoria. Senza dover per forza accogliere il paternalistico invito rivolto dal benpensante di turno.

3. E veniamo infine alla ipocrisia diffusa, che fa scopa, è tutt’uno, col paternalismo. Descrivere come vera una realtà inesistente è perfettamente funzionale ad esercitare il mestiere di moralista. Non se ne può più. Della comunicazione dei protagonisti finta, vuota, cui paradossalmente stampa e commentatori plaudono. Invece di seguire l’insegnamento della scuola di Gianni Minà. La ricerca della verità dei fatti. Il più possibile raccontati sobriamente, separati dalle opinioni. Senza intollerabili sensazionalismi.

Se la «struttura aziendale» del Calcio Napoli è così efficiente, ed il modello è improntato a «organizzazione, programmazione, applicazione», come mai stiamo disperdendo il prezioso patrimonio accumulato, senza l’allenatore e col direttore sportivo (i due veri artefici della vittoria) silenziosamente desideroso di andar via? La domanda che resta senza risposta è una sola. Perché Spalletti ha scelto di lasciare? Abbiamo capito che non è questione di soldi. Aveva una squadra fortissima ed uno splendido rapporto coi suoi giocatori. Sembra letteralmente ‘stregato’ dall’amore della città, la qualità umana dei cui abitanti non perde occasione per decantare.

Ha dichiarato che «A volte per amore si lascia. Per troppo amore». E che «Quando si ha davanti una città come Napoli, che merita delle cose, bisogna domandarsi se siamo in grado di mettergliele a disposizione. Napoli non merita delle cose normali, merita molto di più». E ancora che «Quest’anno non sono in grado, per cui faccio un passettino indietro». Che «Napoli città è stata una delle componenti fondamentali per fare questo tipo di vittoria». Che «Con il popolo di Napoli è nato un legame indelebile che durerà per sempre». Che la storia «spiega come il Napoli sia della città e di tutti i napoletani nel mondo ed io mi sento un privilegiato ad aver potuto partecipare con una mia piccolissima parte a questa storia eterna». Infine ha inteso sfidare gli scettici, affermando che è «coerente con se stesso, al di là dei difetti», e che si vedrà «se sarò coerente».

Di fronte a tanta risolutezza non si capisce perché, se non per convenienza, ci si accontenti della spiegazione della «figlia piccola» e del «bisogno di riposarsi». Colpisce che abbia voluto sottolineare la sua coerenza. L’impressione è che così abbia suggerito la vera ragione del suo volersi riposare e da che cosa. Anche perché, nemmeno tanto fra le righe, ha tenuto a ricordare di chi sia il Napoli, al di là dell’appartenenza giuridica. Possiamo anche credere alle favole, ci fa tornare bambini. Ove però si conservi un minimo d’intelligenza, non si può non cogliere che si tratta della stessa storia che si ripete. Troppe cose delle recenti vicende del Napoli sono rimaste avvolte nella nebbia. La ricerca della verità sistematicamente si arresta dinanzi all’opportunismo. Nessuno mette a nudo e stigmatizza la reticenza dei protagonisti. Sui motivi dell’anno sabbatico si riscontra un preoccupante silenzio. Altro che «racconto tossico spazzato via da De Laurentiis in cinque minuti».

Chissà se anche Spalletti farà acquiescenza. Prima di lui, nessuno – nell’ordine, Gattuso, Ancelotti, Sarri, Benitez e Mazzarri – ha riferito cosa fosse successo. Solo di Reja s’è saputo, perché litigarono fin quasi alle mani. Parlare significherebbe meritarsi il timbro dell’infedeltà, che in questo ambiente, costruito su ambiguità e finzione, non giova lasciarsi imprimere. Fatto sta che nel racconto mediatico nemmeno si abbozza l’unica spiegazione possibile.

Spalletti è stanco perché ha sopportato per un anno una relazione che per lui era diventata impossibile. Perché dopo poco il ‘metodo’ del Presidente è difficilmente sostenibile. Come ha riferito Cobolli Gigli, ex presidente della Juventus, «Si è rotto qualcosa tra De Laurentiis e Spalletti perché ad un certo punto il Presidente del Napoli ha voluto tutti i meriti per sé», individuando il momento iniziale della rottura nella conferenza stampa in cui «De Laurentiis, con Spalletti al suo fianco, disse: “Voglio fare una squadra cazzutissima che vinca lo scudetto”, il tecnico fece una smorfia e il Presidente se lo legò al dito. De Laurentiis è uomo di grandissime capacità, ma dal carattere complicato. È molto permaloso».

E certo Spalletti (seppur uomo tutto d’un pezzo) non è da meno. Dobbiamo solo sperare che la consapevolezza delle asperità caratteriali, ormai definitivamente acquisita al know how del mondo pallonaro, non risulti d’intralcio nella scelta del nuovo allenatore".