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Pavoletti, il primo allenatore: "Immarcabile già a 17 anni, una volta per segnare finì in ospedale! Vi racconto un aneddoto"

A meno di 17 anni giocava per la Juniores, ma qualcuno lo notò e decise di portarlo subito tra i grandi. Quel qualcuno si chiama Stefano Brondi.
16.12.2016 08:25 di  Pierpaolo Matrone  Twitter:    vedi letture
ESCLUSIVA - Pavoletti, il primo allenatore: "Immarcabile già a 17 anni, una volta per segnare finì in ospedale! Vi racconto un aneddoto"
© foto di Federico Gaetano

Il calcio, per Leonardo Pavoletti, non è un affare di famiglia. Papà Paolo pratica tennis, anche se è un tifoso sfegatato del Milan, ma Leo ha sempre preferito il pallone alla pallina. E così a 10 anni eccolo in campo con il Cantiere Navare Fratelli Orlando. Poi il trasferimento all'Armando Picchi, storica società livornese, prima vera squadra del futuro attaccante azzurro.

A meno di 17 anni giocava per la Juniores, ma qualcuno lo notò e decise di portarlo subito tra i grandi, perché il talento era già visibile. Quel qualcuno si chiama Stefano Brondi, il primo vero allenatore del 'Pavoloso', che all'epoca era sulla panchina della prima squadra del club livornese. A raccontarlo, in esclusiva per Tuttonapoli.net, è proprio Stefano Brondi: "L'ho prelevato dalla Juniores, quando io allenavo la prima squadra, in Serie D. Andai a vedere questa partita per visionare qualche giovane, erano le prime partite di campionato. Vidi questo ragazzo che in un quarto d'ora riuscì subito a segnare e l'azione fu sorprendente. Dimostrò un coraggio raro per l'età che aveva, perché entrò di testa su una palla che sembrava già nelle mani del portiere. Si lanciò su quel pallone, nonostante pareva scritto che avrebbe preso un pugno in faccia. Ci mise la testa e prese un colpo, com'era prevedibile, e dovette uscire per essere portato in ospedale. Rimasi colpito da questa cosa e così lo portai in prima squadra, poi lo feci esordire. Per me era un predestinato".

Cosa pensa di avergli dato, essendo stato il suo primo allenatore vero? "Tanto per cominciare non gli ho tolto niente, non l'ho sciupato, non ho fatto danno. Gli ho fatto capire che per giocare a calcio bisogna essere prima di tutto uomini. L'impulsività va domata. Lui era un giocatore forte fisicamente, coraggioso e andava sempre al massimo. Io forse gli ho dato la capacità di essere un po' più lucido nel gioco. Ma le qualità gli sono state date dai suoi genitori e da qualcuno che è al di sopra di noi, perché ha una forza incredibile e l'aveva già da giovane, a meno di 17 anni".

Se dovesse trovare un antico difetto in lui, in cui adesso è migliorato, cosa direbbe? "Ho cercato di farlo lavorare tanto nell'appoggio al gioco. E' un giocatore fortissimo in area di rigore, bravo in acrobazia, ci crede sempre, ma il suo tallone d'Achille era proprio il lavoro di sponda. Non era scarso, ma per arrivare in certi livelli doveva migliorare da questo punto di vista. Per il resto, già all'epoca sentiva la porta ed era immarcabile, poiché svelto a leggere le situazioni di gioco. Sono contento che vada nella squadra che gioca il miglior calcio d'Italia".

Un aneddoto legato al giocatore? "Giocammo uno spareggio play-off per vincere un campionato. C'erano osservatori da tutta Italia per visionarlo, era sotto l'occhio di tutti perché aveva realizzato 13 reti da Under. In questa gara, nei primi venti minuti, segnò e subì il rigore che avrebbe portato poi al raddoppio. Vincevamo 2-0 ed ebbe un gesto istintivo, di reazione, dopo un fallo: così fu espulso. Negli spogliatoi gli dissi che se non avessimo vinto quella partita, avrebbe fatto bene a non farsi trovare più. Doveva migliorare anche in questo, nell'istinto. Alla fine vincemmo 5-0 e lui poté far festa. E' un giocatore comunque molto positivo. Questo era legato alla sua irruenza, alla sua enorme voglia di vincere, e questa qualità non deve perderla. Basta gestirla".