Guido Clemente di San Luca a TN: "Aspettiamo ad innamorarci dei nuovi che indossano la nostra maglia"

 Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Campania Luigi Vanvitelli, ha analizza il momento del Napoli. 

24.09.2022 18:30 di  Redazione Tutto Napoli.net  Twitter:    vedi letture
Guido Clemente di San Luca a TN: "Aspettiamo ad innamorarci dei nuovi che indossano la nostra maglia"

 Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Campania Luigi Vanvitelli, ha analizzato il momento del Napoli. 

Riprendo a scrivere dopo quasi un mese di voluto silenzio. Approfitto della pausa per la nazionale, per rendere due riflessioni. La prima, questa, sulla nostra storia recente ed attuale. La seconda, in un pezzo successivo, sulla consueta battaglia per salvare il Regolamento tradito dalla linea seguita dal sistema arbitrale e dalla stragrande maggioranza dei commentatori, che esprimono un avvilente asservimento al sistema, promuovendo l’arbitrio anziché l’ossequio della legalità.

Veniamo alla nostra ‘storia’, alla storia azzurra recente ed attuale. Nel prevalente racconto di essa si dice – con arroganza pari a mentecattaggine – di un «salire sul carro del vincitore» da parte dei detrattori di AdL. Che qualcuno sia tale e l’abbia fatto (e lo faccia) è indubbio. È attitudine piuttosto consueta, soprattutto della stampa servile. Non certo di chi ha chiaro che il carro di cui si discute è il Napoli, e quello che esso rappresenta per la gente di Napoli. Io, ad esempio, dal quel carro non sono mai sceso, né mai scenderò a meno di uscir di senno. E perciò non devo ‘risalirvi’.

V’è però chi pensa che quel carro sia altro. Di volta in volta il presidente di turno, oppure un allenatore imbelle, magari dalle provinciali aspirazioni di internazionalizzazione. Ebbene se il carro è quello, allora personalmente non ho da scendervi o da risalirvi. Semplicemente perché il mio carro è un altro. È il Napoli. È la passione azzurra. È la capacità della squadra di esprimere e rappresentare l’antropologia di un popolo speciale. Ciò chiarito, proviamo a rifare in breve il racconto della nostra storia recente ed attuale, senza ipocrisie o false ricostruzioni della realtà.

La dichiarazione su Ancelotti resa da Giuntoli nel corso dell’intervista rilasciata al CorSport di una decina di giorni fa ha consentito a più d’uno (ma a torto) di riprendere una narrazione degli eventi degli ultimi anni basata su una falsa rappresentazione dei fatti. Che si risolve nel considerare i protagonisti del cd. ‘ammutinamento’ (tutt’altro che illegittimo) come ‘quattro muccusielli’, giocatori «sopravvalutati», dei quali ora ci saremmo finalmente ‘liberati’. Trattasi di lettura erronea e preconcetta. Ed infatti, a voler dire la verità, la responsabilità fu tutta del mister più titolato in assoluto, almeno per l’esperienza napoletana celebrato a torto.

Proviamo a ripercorrere il cammino come se volessimo raccontare una favola. C’era una volta una squadra di calcio, ricca di storia e capacità rappresentativa, ma povera di titoli, la cui società un giorno fallì. A rilevarne il titolo fu un abile e scaltro impresario cinematografico, che in pochi anni ne risollevò le sorti aziendali, gestendo le non ingentissime risorse con acume, avvedutezza ed una non insignificante dose di buona sorte (che sempre è necessaria). La squadra così si risollevò e, pur senza vincere titoli di particolare rilievo, si collocò stabilmente su un livello medio-alto.

La sua gestione, dunque, esibiva una più che discreta efficienza finanziaria, tale da restituire cospicui introiti aziendali. Ma mai piena empatia col popolo che la squadra rappresentava (forse più di tutte le altre). Il culmine della gestione fu nell’intuire le qualità, fin lì poco rivelate, di un tecnico visionario che, in un memorabile triennio, diede alla squadra un gioco di grande bellezza unito alla capacità di vincere. Tuttavia non vinse. Soprattutto perché fu vittima di decisioni arbitrali illegittime, che ne compromisero gravemente il risultato finale.

Un po’ oscurato dalla grande fama acquisita dal tecnico e dalla forte personalità di questi, il Presidente s’ingelosì. Dacché – oltre a guardare con inarrivabile oculatezza ai propri guadagni – era affetto da una vanità pressoché smisurata, pari soltanto alla notevole considerazione di sé. Fu così che commise un grave errore (ché talvolta capitano anche a chi è baciato dalla dea bendata). Nella prolungata incertezza del tecnico a decidersi per la riconferma, fece un grandissimo colpo di teatro.

Con una mossa ad effetto, da tempo preparata, riuscì a liberarsi di una personalità che gli faceva ombra, mettendosi al riparo da possibili contestazioni popolari. Assunse un trainer dal palmares indiscutibile (pur se reduce da un paio di stagioni non esaltanti, e perciò in cerca di rilancio). Sennonché il grande nome arrivò e si rivelò per la squadra, benché umanamente ineccepibile, un vero disastro. Anziché proseguire, con piccoli accorgimenti innovativi, il lavoro svolto dal predecessore, portò mentalità e allenamenti che i giocatori non erano in grado di recepire. Così la squadra si perse, venne di fatto desertificata nell’anima e nella identità. Per raddrizzar la situazione, il Presidente lo sostituì con un suo allievo, rinomato per la tenacia che aveva messo nella sua esperienza da calciatore. La squadra ricominciò ad allenarsi duramente come nella gestione della ‘grande bellezza’, tornò pugnace e addirittura vinse una competizione (non la principale).

L’anno appresso ne successero di tutte. Pandemia, malattie ed infortuni complicarono il percorso e, a metà cammino, il Presidente lasciò trapelare l’intenzione di esonerarlo. La squadra, però, superò le difficoltà e si riprese alla grande. Fino all’ultima giornata: per arrivare fra le prime 4, sarebbe bastato battere una squadra priva di stimoli significativi. Ma, prima di quell’ultima gara, il Presidente – che da mesi aveva smesso di incontrare il mister – pensò bene di andare a far visita alla squadra, nell’albergo dov’era in ritiro. Su ciò che accadde in quella circostanza fu calato un velo di omertà. Fatto sta che i giocatori in campo sembrarono quasi sotto shock, come perduti nelle nebbie dell’anima. Si pareggiò fallendo l’obiettivo (che peraltro, senza l’ennesima nefandezza arbitrale, sarebbe stato conseguito con una giornata d’anticipo), il mister restando incredibilmente silenzioso.

Fu così che venne esonerato. E se ne prese uno nuovo. Esperto, navigato, capace. Che si rivelò subito sagace. Scelse infatti di proseguire sul filo (incautamente interrotto) della ‘grande bellezza’, già recuperato dal predecessore (ingiustamente fatto fuori), dopo l’infausta parentesi ispirata a criteri inadatti alle caratteristiche di quei giocatori, con ogni evidenza sfuggite all’intelligenza del tecnico più titolato al mondo. Il corso rinnovato stava per conseguire il frutto più prezioso, quando purtroppo, ormai in dirittura d’arrivo, la guida perse lucidità. Con la stagione successiva, il Presidente, nel confermarla, diede finalmente mano libera al suo consolidato direttore generale (bravissimo, ma per molto tempo tenuto a freno, od in disparte), con una chiara indicazione della direzione di marcia: ridurre il monte-ingaggi, ringiovanire la rosa e liberarsi dei calciatori rimasti dalla stagione della ‘grande bellezza’. Radicalmente. Quei giocatori però avevano fatto innamorare i tifosi, i quali in essi avevano visto incarnare i propri colori. Non tener alcun conto di ciò creò sconcerto, finendo per generarsi una dolorosa spaccatura. Fine della favola. In attesa – è ovvio – del lieto fine.

Conclusioni. La memoria è vita. Non ci si innamora facilmente di un’altra senza elaborare la perdita del grande amore vissuto. Non si può semplicemente porlo nell’oblio. Ci vuole il tempo che ci vuole. Bisogna saper attendere che nel cuore si riapra uno spazio. Come cantava Gaber, «io cambio poco, io cambio molto lentamente, e non riesco a digerire i corsi accelerati». Ecco, bisogna aspettare un po’ prima di innamorarsi veramente di nuovo. Non del Napoli, naturalmente. Ma di chi pro tempore ne indossa la maglia. E la cosa vale per ambo le parti: noi ed i nuovi alfieri azzurri.

Dopo la esaltante vittoria sul Liverpool, non si va a saltare sotto la curva. Ci si ferma prima della porta. Come se ancora non si sentisse appieno la città. Mentre in tribuna, a tifare per l’azzurro c’è chi, vestendo la maglia che Lui gli regalò, s’è appena fatto un volo dalla Turchia. Beh, se questo significa niente, si spiegano i facili commenti dei tardivi denigratori del cd. ‘movimento A16’.

Di questo s’era detto. Di amore, di passione. Mai s’è parlato di «smobilitazione» o «ridimensionamento» [Sotto il profilo tecnico-tattico dichiarai d’esser convinto della nostra forza ben prima del completamento degli acquisti: si v. il pezzo su Tuttonapoli del 2/7/22]. S’è invece segnalata l’incapacità di rappresentare adeguatamente il popolo azzurro! Un argomento volutamente ignorato dagli epigoni delle banderuole. E da chi persevera nel professare idee preconcette, secondo una visione neo-illuminista incapace di cogliere la realtà di squadra e città. Restando in una desolante solitudine culturale nel dichiararsi, di volta in volta, ‘rafaeliti’ o ‘ancelottiani’. Di fatto rivelandosi mai veramente azzurri. Fra costoro e il sottoscritto v’è una distanza incolmabile.